Condannati e dimenticati, anche dal sistema sanitario. Così per i detenuti rimane
solo una cura: gli psicofarmaci

L’esistenza di reparti detentivi all’interno degli ospedali migliorerebbe l'accesso dei detenuti alle prestazioni sanitarie, da cui oggi sono quasi del tutto tagliati fuori, e le condizioni di lavoro degli agenti di custodia. L’assurdo è che da oltre dieci anni ne esiste uno presso il nosocomio cagliaritano del Santissima Trinità, ma viene utilizzato come magazzino. In linea teorica, «non sarebbe difficile sbloccare l’impasse, ma la giunta regionale latita», attacca Luciano Fei, responsabile della sanità penitenziaria dell’Asl di Cagliari. Contattato, l’assessore regionale alla Sanità Carlo Doria non ha risposto alla nostra richiesta d’intervista. Più in generale, tra mancate diagnosi e ritardi nella somministrazione delle terapie (come mostrano le storie raccolte da Indip), carenza di medici specialisti e di psicologi, nelle case di custodia sarde a latitare è proprio il diritto alla salute. Un problema enorme, certificato anche dai recenti sopralluoghi della storica associazione Antigone nelle carceri isolane, dove si tende a fare un larghissimo uso di psicofarmaci, anche di fronte a disagi che non hanno niente di patologico, accusa la coordinatrice nazionale dell’associazione Susanna Marietti. Completano il quadro di questo girone dantesco i detenuti che in effetti presentano problemi di salute mentale, finiti in carcere in seguito alla chiusura nel 2015 degli ospedali psichiatrici giudiziari. Perentorie la Garante sarda delle persone private della libertà Irene Testa e la presidente dell'Associazione sarda per l'attuazione della riforma psichiatrica Gisella Trincas: «Non dovrebbero trovarsi lì, per giunta in uno stato di abbandono, dove non possono che peggiorare»