Si conobbero che lui era in volo e lei ottomila metri sotto. Il diciannovenne Luigi Riva da Leggiuno, assieme al resto della Nazionale juniores di calcio, tornava in Italia dopo una vittoriosa trasferta in Spagna. A un certo punto nell’oblò di quel quadrimotore dell’Alitalia comparve la Sardegna. Non l’aveva mai vista prima. Le presentazioni, sempre in quota, le fece due settimane dopo Luciano Lupi, suo allenatore nel Legnano: «Rientravamo a Milano da Roma dopo il match in casa contro la Spagna. Durante il volo si avvicinò per dirmi tre parole, non una di più – racconterà Riva anni dopo – “Ti abbiamo venduto”. Pensai al Bologna o all’Inter. Glielo chiesi: “Al Cagliari”, rispose. Per me fu come se fosse caduto l’aereo».
Il 13 marzo 1963 l’aviazione civile non registrò alcun disastro, il cuore di Riva sì. «Dissi a Lupi che in Sardegna non sarei mai andato. Piuttosto, avrei smesso di giocare e sarei tornato in fabbrica a produrre candele o nella vecchia ditta che montava bottoniere per ascensori».
Parole ferali per il commendator Luciano Caccia, presidente del Legnano, che vedeva evaporare i 37 milioni messi sul piatto dal Cagliari Calcio per chiudere l’affare. Convincere Riva pareva impossibile, ma alla fine si trovò un compromesso. «Mia sorella Fausta mi suggerì di pensarci bene e il presidente Caccia mi propose di andare a Cagliari per qualche giorno. Se non mi fossi trovato bene, avrebbe stracciato il contratto. Accettai».
Il finale è noto. Riva non solo rimase a Cagliari: arrivò pure a Seui. E oltre. «Mi portarono in questo paesino in provincia di Nuoro e sulla credenza di un’anziana notai una mia foto, tra i santini dei suoi genitori. La donna, senza conoscermi, disse: “Quello è buono”. Così ho iniziato ad amare la Sardegna, andando in mezzo alla gente, a casa dei pastori o negli ovili». Perché Riva ama gli umili, come lui. E i generosi.
«I sardi mi hanno sempre fatto sentire uno di loro. Poi abbiamo lo stesso carattere, non ci mettiamo in mostra, siamo silenziosi. Voglio bene a Leggiuno, ma poi torno qui a Cagliari, perché mi sento un vagabondo sardo», spiegò nel 2013 a un giornalista. Erano passati cinquant’anni dal primo incontro.
Nella primavera del 1963, quando atterra a Cagliari-Elmas, Riva non ha ancora vent’anni, il fisico che sembra un chiodo e lo sguardo impaurito. È sfiancato dal viaggio. Pochi minuti dopo il decollo da Milano, è già tempo di atterrare. Ma a Genova. Poi ad Alghero, prima di puntare su Cagliari. Riva, la sorella Fausta e il fido Lupi ci arrivano solo a tarda notte.
Ad attenderli c’è il difensore rossoblù Miguel Ángel Longo accompagnato dalla moglie e dal vice allenatore del Cagliari Omero Tognon. «In via Roma, alle porte della città, guardando verso il golfo vidi tantissime luci in lontananza ed esclamai: “Quella dev’essere l’Africa”. Lupi mi diede un calcio nel sedere e ammonì: “Non dirlo a nessuno”. Questo è stato il primo impatto con Cagliari e con la Sardegna».
Arrivato allo stadio, il glorioso Amsicora, il bomber di Leggiuno si mette le mani nei capelli: non c’è un filo d’erba, solo una distesa di ghiaia «che ad ogni scivolata perdevi mezza coscia». Con i tifosi non scatta il classico amore a prima vista: gli idoli locali sono Tonino Congiu e Mario Tiddia, unici sardi a vestire la casacca rossoblù. Riva è visto come un “pivello continentale”. L’allenatore Arturo Silvestri lo porta in giro per la città. Alla fine, di fronte a un ingaggio di due milioni, oltre a duecentomila lire mensili, Riva capitola.
Esordisce in serie B il 13 settembre del ’63 con la maglia numero 11 e nove mesi dopo la città festeggia la prima, storica promozione nella massima serie. Ora lo conoscono tutti e lui sta imparando a conoscere i sardi. La politica è quella dei piccoli passi: l’iniziale diffidenza diventa cauta apertura, quindi affetto granitico e viscerale. Il ragazzo è venuto dal lago Maggiore, ma è a Cagliari che impara a mangiare il pesce con le mani lasciando sul piatto nient’altro che la lisca. «Me lo insegnò Martino, uno dei primi a invitarmi a casa sua. Mi voleva bene come un figlio».
Di cognome, Martino fa Rocca. È un commerciante di pesce. Ben presto diventa l’inseparabile amico di Riva, così come Gianni Farci, titolare di un box al mercato di San Benedetto. Il ragazzo di Leggiuno ha ritrovato la famiglia che aveva precocemente perduto. Il padre Ugo quando aveva nove anni, la madre Edis poco prima che diventasse il campione conosciuto in tutto il mondo. Le lunghe tavolate in compagnia degli amici pescatori sono entrate nella leggenda. E poi c’è il vicepresidente Andrea Arrica, che si ritaglia il ruolo del buon padre di famiglia smanioso di sistemare il pargolo anche al di fuori dell’Amsicora. E così farà.
«Un giorno arriva Arrica e mi dice: “Senti, perché non apri un distributore di benzina con Gigi Riva?”. Ecco come tutto è iniziato». Oggi Albino Cocco, il Professore (scomparso nel 2022, ndr), è un signore minuto con gli occhi vispi e una mite riservatezza, spezzata da frasi brevi e misurate, capostipite di rango dei meccanici preparatori cagliaritani fin dagli anni ’50. Riva ha la passione dei motori e delle macchine veloci. È una folgorazione. È Albino che gli passa la sua prima auto, una potente Giulia Quadrifoglio, alla quale seguiranno una Dino spider e una Alfa Romeo Montreal 2600. Diventano compari: il bomber battezza il figlio di Albino, Mariano. Dopo il distributore di benzina alla fine degli anni Sessanta aprono, assieme al terzo socio, Beniamino Saba, una delle più eleganti concessionarie Alfa dell’isola.
Con la Montreal Riva va veloce «ma con prudenza». E in auto come a casa ascolta Fabrizio De André. «Ci siamo conosciuti a casa sua. Eravamo uno di fronte all’altro, su due divani diversi – ha raccontato lo scorso anno a Elvira Serra del Corriere della Sera -. Lui era chiuso, io ridicolo. A un certo punto si è alzato ed è andato a prendere una bottiglia di whisky. Ne ha versato un bicchiere per ciascuno e lì siamo partiti come treni». Era il 1967.
Riva in quel periodo è irrequieto. Si aggiudica la classifica cannonieri e sa benissimo di essere lanciato verso una carriera sfolgorante. Ama la Sardegna ma si sente in gabbia. «A Cagliari come uomo sto benissimo, ma come calciatore mi sento isolato, fuori dal grande giro», dichiarerà con la proverbiale sincerità. Eppure nessuno riuscirà a fargli indossare una maglia diversa da quella rossoblù, se non quella della Nazionale. Intanto perché solo a sentir parlare di cessione, i disordini di piazza sono dietro l’angolo. L’affetto dell’isola è commovente. Lui contraccambia. «Questa regione mi ha adottato. Quando vedevo la gente che partiva alle 8 da Sassari e alle 11 lo stadio era già pieno, capivo che per i sardi il calcio era tutto. Come fai poi a lasciare e dire “Va beh… Grazie e arrivederci”? Sarebbe stata una vigliaccata».
Non cede nemmeno alle lusinghe della Juventus, che offre “due miliardi e sei giocatori”, si favoleggia all’epoca, anche se poi la vicenda sarà ridimensionata. Si dice che l’Avvocato in quel periodo chiamasse ogni giorno Giampiero Boniperti e gli dicesse: «Portalo per un orecchio questo pecoraio sardo». Che, detto da uno che si chiama Agnelli… L’aneddoto lo ha raccontato recentemente lo storico difensore bianconero Francesco Morini. Niente di più plausibile. «Ci chiamavano pecorai e banditi in tutta Italia e io mi arrabbiavo – ha spesso ricordato Riva -. Il Cagliari era tutto per tutti e io capii che non potevo togliere le uniche gioie ai pastori».
Archiviati gli assalti delle grandi squadre, il riscatto non tarda ad arrivare, insieme ad un allenatore che nel giro chiamano “il filosofo”. È Manlio Scopigno, altra pietra miliare nella vita sportiva e privata di Riva. Che il 12 aprile 1970, insieme a un undici entrato nella storia, riempie d’orgoglio un’intera isola: all’Amsicora il Cagliari batte il Bari 2-0 e vince lo scudetto. Lo stadio salta metaforicamente in aria. «Nel marasma generale – scrissero i giornali – i carabinieri hanno perfino pescato nel pubblico due latitanti che per nulla al mondo avrebbero rinunciato a godersi lo scudetto: finiscono in cella felici».
Ricorderà il portiere Ricky Albertosi: «La gente era come impazzita, ci hanno lasciati in mutande. Chi piangeva, chi rideva… Era incredibile». Dopo uno spettacolo del genere, Riva non ha più alcun dubbio: Cagliari è la sua vita, non andrà più via. Come un soldato fedele, come un guerriero. Pochi mesi dopo, nel nuovo campionato, il Cagliari umilierà l’Inter sconfiggendola 3 a 1 a San Siro. Quel giorno Gianni Brera battezzerà il ragazzo di Leggiuno “Rombo di tuono”.
L’addio al calcio è precoce. Arriva dopo l’ennesimo infortunio, subito contro il Milan il primo febbraio 1976. Gigi Riva ha solo 32 anni e un corpo martoriato dalle entrate scriteriate e violente degli avversari. Lascia il calcio giocato con numeri-monstre: col Cagliari totalizza 289 presenze e 156 gol, mentre in Nazionale gioca 42 partite e segna 35 reti. Un record incredibile che resiste da 45 anni. A far meglio è solo l’amore, affettuosamente ricambiato, per la Sardegna: quello ha già superato il mezzo secolo.
Credits foto, grafica e video originali: Manuel Putzolu, Raffaele Angius e Daniele Mura